Un folto team internazionale di ricercatori che lavorano su una vasta
gamma di specie considerate “intelligenti” – elefanti, corvi, cetacei e
scimpanzé – sostiene che per pianificare gli interventi internazionali
di salvaguardia della biodiversità bisogna tener conto delle culture
degli animali.
Una convinzione che è confermata dallo studio studio “Animal cultures matter for conservation”
pubblicato recentemente su Science
e che espone la crescente evidenza scientifica che «l’apprendimento
sociale in un’ampia gamma di specie, che può condurre a culture animali
uniche, sia importante sia per la pratica di conservazione che per la
politica di conservazione. Approfondimenti sulle culture animali possono
fornire preziose informazioni su “cosa” sono i gruppi di animali da
conservare e su “come” conservarli meglio».
Il team di ricercatori fa l’esempio delle nonne orche che trasmettono
informazioni preziose ai loro discendenti, o spiega perché in alcune
tribù di scimpanzé esista la cultura di rompere le noci con strumenti di
pietra e in altri no di pietra mentre altre no e dice che «Questa può
essere la chiave per valutare le sfide delle conservazione per tali
specie».
Gli scienziati ricordano che in molte specie animali, i giovani
inesperti imparano le principali abilità necessarie alla loro
sopravvivenza osservando gli anziani esperti del loro gruppo sociale e
questo riguarda comportamenti essenziali come comunicare, trovare cibo
in modo efficiente e dove migrare quando le condizioni diventano meno
ospitali. «Ad esempio – spiegano ancora i ricercatori – la trasmissione
delle conoscenze sulle rotte migratorie nelle gru adulte e nelle pecore
bighorn, può fornire informazioni essenziali per il successo delle
generazioni future. A differenza della trasmissione genetica, la
conoscenza sociale può essere trasmessa all’interno delle generazioni,
così la conoscenza delle nuove fonti alimentari può essere condivisa,
fornendo potenzialmente resilienza in ambienti mutevoli».
Ma gli autori dello studio pubblicato su Science evidenziano
anche che «I processi di apprendimento sociale possono anche portare
all’emergere di sottogruppi culturali con profili comportamentali
distintivi, erigendo potenzialmente barriere sociali, come osservato ad
esempio nei clan di capodogli con richiami distinti nel Pacifico
tropicale. Questa segregazione culturale può avere importanti
implicazioni sulla conservazione, specialmente quando gruppi diversi
hanno strategie di foraggiamento diverse e si diversificano nella loro
capacità di far fronte ai cambiamenti ambientali».
Si tratta di un approccio alla salvaguardia della biodiversità che
potrebbe rivelarsi rivoluzionario: «Piuttosto che utilizzare l’approccio
tradizionale di valutare la diversità genetica o il grado di isolamento
geografico, per proteggere il “capitale sociale”, alcune popolazioni
possono essere meglio delineate attraverso il loro comportamento
culturale. Inoltre, per alcune specie, proteggere gli individui che
fungono da “depositi” di conoscenza sociale, come le matriarche esperte
negli elefanti esperti, può essere altrettanto importante della
conservazione di un habitat critico».
La principale autrice dello studio, la britannica Philippa Brakes
dell’università di Exeter, sottolinea che «Oltre ai geni, anche la
conoscenza è moneta corrente importante per la fauna selvatica. Oltre a
conservare la diversità genetica, dobbiamo lavorare per mantenere la
diversità culturale all’interno delle popolazioni animali, come riserva
per la resilienza e l’adattamento. Questo è un importante reframing
della nostra comprensione del mondo naturale, che richiederà
cambiamenti nella legislazione internazionale sulla fauna selvatica».
La Convention on the Conservation of migratory species of wild
animals (Cms – Convenzione di Bonn) – che opera sotto l’egida
dell’United Nations environment programme (Unep) sa guidando gli sforzi
per utilizzare le conoscenze scientifiche sulle culture animali, per
migliorare la conservazione delle specie migratorie. Infatti, lo studio è
il risultato di un seminario organizzato a Parma dal Cms, durante il
quale esperti di tutto il mondo hanno messo insieme decenni di
esperienze per elaborare raccomandazioni concrete su come migliorare le
strategie di conservazione e hanno sottolineato che "E’ fondamentale
catalogare l’ampia diversità di comportamenti culturali all’interno del
regno animale e sviluppare metodi per identificare gli individui che
sono i custodi di importanti conoscenze sociali all’interno delle loro
comunità e richiedono una protezione speciale".
Il 26 febbraio, l’ altro principale autore dello studio, Christian
Rutz dell’Università di St Andrews, nel Regno Unito, ha annunciato la
pubblicazione delle raccomandazioni del gruppo in un seminario sulle
culture degli animali a Costanza, in Germania, organizzato dal
Max-Planck-Institut für Ornithologie e dalla National Geographic
Society, e ha fatto notare che «Questo è uno sviluppo incredibilmente
importante. Decenni di ricerca sulle culture animali sono ora messi a
frutto nelle scienze e nella definizione delle politiche della
conservazione e abbiamo un’idea molto migliore di quali lacune nella
conoscenza debbano ancora essere colmate».
Il 2020 sarà l’ultimo anno del decennio dell’Onu per la biodiversità e
gli autori dello studio e dei documenti evidenziano che «Questo
lavoro, all’interfaccia tra scienza e definizione delle politiche, è
tempestivo, in quanto i governi possono considerare il modo migliore per
conservare la biodiversità in un mondo in continua evoluzione» ed
esortano a fare in modo che, «Dato il loro profondo impatto sulle
prospettive di sopravvivenza delle unità sociali e potenzialmente su
intere popolazioni, le culture animali siano presenti in queste
discussioni».
L’ex segretario esecutivo della Cms, Bradnee Chambers, purtroppo
deceduto quest’anno, è stato un forte sostenitore di questa iniziativa e
diceva: «Esaminando la questione della cultura animale, della
complessità sociale, dell’apprendimento sociale e del ruolo dei singoli e
dei singoli gruppi di animali come depositari di conoscenza sociale, la
Cms sta aprendo nuovi orizzonti. Questo lavoro pionieristico potrebbe
avere ripercussioni fondamentali su come ci approcciamo alla
conservazione».
Fernando Spina, dirigente di ricerca dell’Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale e presidente del Cms Scientific
Council, che ha partecipato allo studio insieme ad altri ricercatori
italiani, conclude: «Questa nuova frontiera della cultura animale e
della complessità sociale apre una prospettiva affascinante e innovativa
su come consideriamo gli animali: dai singoli componenti ai modelli di
popolazione, agli individui che offrono contributi specifici al resto
del gruppo sociale. Quando si pensa alle strategie per la conservazione
degli animali migratori, che è la principale missione della Cms a
livello globale, con singoli animali che visitano diversi Paesi lungo il
loro ciclo annuale, la trasmissione culturale delle conoscenze su come
realizzare i loro incredibili viaggi migratori è una nuova componente
della quale le politiche ambientali dovrebbero tenere pienamente conto.
Questo nuovo approccio apre opportunità per modi innovativi di
proteggere e comunicare il mondo naturale: capire che altre specie hanno
una vita sociale ricca e che condividono informazioni importanti l’una
con l’altra, fornisce una nuova prospettiva inestimabile. Con l’aumento
del degrado degli habitat in tutto il mondo, tali informazioni possono
essere fondamentali per un’efficiente conservazione degli animali».
(Fonte: greenreport.it )
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